Un punto di vista psicologico sulla coesione dei tifosi.
Io faccio il tifo per… noi!
Eccoci qui! Il campionato è appena cominciato, e già ci sono i primi mugugni relativi all’arbitraggio e agli orari… il calcio, croce e delizia di noi italiani, così appassionati e fedeli ai nostri colori… arriva quel periodo dell’anno in cui, per i più appassionati, il calendario del campionato diventa l’impegno principale del tifoso, allo stadio o in tv, e tutto il resto si incastra di conseguenza.
Ma cos’è lo stadio per un tifoso? Cosa vuol dire “tifare”?
I tifosi di una squadra, sì di calcio, ma in generale si può ampliare al rugby, alla pallavolo, alla pallanuoto e a tutti gli sport di squadra in generale, si sentono appartenenti ad un gruppo di persone coese, che condividono ideali e obiettivi, uniti contro un rivale comune: la squadra avversaria. Sentono la partita come se fossero loro a giocarla, e non a caso vengono definiti dai giocatori “il dodicesimo uomo in campo”, sempre pronti a sostenerli e a dar loro quella carica in più.
Proviamo a capire qualcosa in più della coesione da un punto di vista psicologico. Ci state?
Innanzitutto, iniziamo dicendo che in psicologia si è guardato alla vita associativa e alle aggregazioni di individui in diversi modi. Per esempio, Gustav Le Bon ha elaborato la sua teoria delle masse (1895), secondo cui le aggregazioni (per non parlare delle folle!) erano viste in maniera negativa, e ne dipingeva la vita come irrazionale e capace di travolgere i buoni principi gerarchici che sostengono l’individuo, le sue scelte, la sua razionalità e l’ordine sociale. L’irrazionalità è vista quindi come la caratteristica fondante i gruppi e le folle: l’individuo e la sua personalità svaniscono, lasciando il posto ad una mentalità collettiva poco capace di azioni razionali o logiche (non vi ricorda un po’ quelli che sono i discorsi dei non amanti dello sport di squadra nei confronti dei tifosi più appassionati? O anche spiacevoli episodi in cui come persona singola nessuno si arrischierebbe a causare?); Kurt Lewin, invece, definiva il gruppo, grande o piccolo che fosse, come una totalità dinamica, data non dalla somma degli elementi che la compongono ma dalla loro interazione: “Il gruppo è qualcosa di più o, per meglio dire, qualcosa di diverso dalla somma dei suoi membri”. Le parti di questa totalità dinamica dipendono tra loro secondo due fenomeni: l’interdipendenza del compito, secondo il quale il legame tra i membri del gruppo è determinato dallo scopo, e le azioni di ciascun membro influenzano o determinano quelle degli altri; e l’interdipendenza del destino, la sensazione di un aggregato di individui di avere uno stesso destino e che per questo si sentono uniti. Ne deriva che un gruppo risulta coeso quando i suoi membri, dimenticandosi delle differenze reciproche, lavorano come un’unità, creando una mente di gruppo (quanto sono belle le coreografie portate avanti dai grandi gruppi?). Sherif ha ancora una terza teoria: egli considera il gruppo come “una struttura, in cui i membri sono legati da rapporti di status e ruoli e in cui si delineano norme e valori comuni”. Il fulcro della formazione di un gruppo diviene quindi l’interazione tra i diversi membri che ne fanno parte, in caso contrario vi si trova davanti solo un semplice aggregato di persone (la differenza tra le tifoserie organizzate e i tifosi, per esempio!). Secondo Tajfel, poi, il solo fatto di pensare di avere qualcosa in comune con delle altre persone, senza aver avuto alcun tipo di rapporto con queste, porti l’individuo a ritenersi parte di un gruppo (la tifoseria in generale, è il sentimento grazie al quale ci troviamo abbracciati al nostro vicino a esultare insieme dopo il goal vittoria arrivato all’ultimo secondo).
La cultura di un gruppo è caratterizzata da un insieme di norme che, insieme allo status e ai ruoli, garantiscono l’ordine e facilitano il raggiungimento dell’obiettivo. Le norme possono essere definite come delle scale di valori o delle aspettative condivise che regolano l’accettabilità e la non accettabilità dei comportamenti e delle modalità espressive dei membri di un gruppo e possono essere esplicite, formalizzate in un regolamento scritto o in una deontologia di riferimento, o implicite, non scritte, centrali, quindi fondamentali per la sopravvivenza del gruppo, e periferiche, questioni marginali che, anche a seconda del proprio status, un membro può permettersi di non seguire fedelmente. Per questo motivo troviamo tifoserie politicizzate e non, gruppi divisi o uniti, più o meno “invadenti” per quanto riguarda la propria squadra.
Ma dopo tutte queste parole, mettiamoci in difficoltà: la coesione consegue il gruppo o ne è la causa?
Una prima definizione psicologica del termine fu studiata da Festinger, Schachter e Back (1950): la coesione sarebbe il campo totale di forze che agiscono per mantenere unito il gruppo, in particolare l’attrazione reciproca tra i membri. A questa seguì una fase di critiche (un gruppo può essere coeso anche se i membri non si conoscono tra loro), durante la quale, però, gli studiosi non riuscirono a dare una definizione alternativa. Bisogna aspettare gli anni Settanta e la teoria della categorizzazione sociale (Turner, 1975), che distingue tra attrazione personale e attrazione sociale, quest’ultima attinente ai vari processi di gruppo.
In Italia, un importante contributo alla definizione del termine coesione viene dato da Amerio e Borgogno (1975): essi pongono in risalto l’obiettivo perseguito dal gruppo, che può consentire ai membri di rimanere uniti nonostante le tensioni che possono facilitarne il disgregamento. Questa definizione viene ripresa da Carron, Brawler e Widmeyer (1998) che, partendo da studi condotti su squadre sportive, definiscono la coesione come un processo dinamico che si riflette nella tendenza di un gruppo a stare assieme e a restare unito nella ricerca di obiettivi concreti e/o nel soddisfacimento di bisogni affettivi dei membri del gruppo stesso.
È ciò che succede nelle tifoserie: i colori in comune, i riti pre-gara, il bisogno di socialità con altri simili a sé, il sentirsi parte di qualcosa di grande porta i diversi tifosi ad aggregarsi e a conformarsi alle regole e alle dinamiche dei gruppi in cui entrano, fino a farle diventare proprie. Lo stadio diventa il luogo in cui sfogarsi, dove trovare i propri amici (anzi, compagni di avventura), dove prendersi del tempo per sé e distrarsi.
E voi, cosa ne pensate? Che idee avete sulla coesione? E sulle tifoserie? Parliamone insieme!
dott.ssa Deborah Landa
Da sempre amante dello sport, ho una naturale inclinazione verso gli sport acquatici.
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